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Tamerisco parte seconda

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I

 

Piero consegna la busta a Pergamena

La relazione con Adelina subisce una nuova frequenza

 

 

Non avevo detto ad Adelina della busta che mi aveva affidato il padre di Pietro, e in verità neppure con Michele ne avevo mai parlato. Rinviavo di giorno in giorno il momento in cui avrei deciso di andare a trovare Pietro nel palazzo dei Pergamena dove si era rifugiato. L’idea di entrare in quell’atmosfera gravida di tristezza mi pesava sull’anima e trovavo ogni giorno una scusa per rimandare. Un pomeriggio in cui la città era coperta da un cielo grigio e piatto, finito il lavoro, mi recai da Pietro. Rimasi a lungo nel vicolo a guardarmi attorno, fantasticando, immaginando come potesse essere quella parte della città nel medioevo: pochi casolari in mezzo alla campagna, poi, col lento espandersi della città e l’abbattimento delle vecchie mura, erano sorti i palazzi dei potenti di cui i Pergamena facevano parte. Palazzi sontuosi su vicoli fangosi e maleodoranti. Infine fu posto l’acciottolato che tappezza tuttora la stradina. Indugiavo nella speranza d’incontrare Pietro nei paraggi di casa, ma non si fece vivo; così mi decisi ad entrare nel cortile del paggio dal naso mozzo la cui presenza, non capivo perché, mi produceva uno spiacevole turbamento. Si udiva provenire da una finestra l’inconfondibile voce della Callas in “Un bel dì vedremo” dolce e inquietante. Scampanellai alla porta, mi aprì Maria nella solita veste da camera. Il suo aspetto mi sembrò migliorato: il viso era meno cereo, le ombre viola intorno agli occhi erano meno intense, sebbene la magrezza non fosse cambiata, l’addome appariva emno prominente. Pietro non era in casa. Mi offrì un infuso di malva che trangugiai a malincuore. Odiavo gli infusi, una fobia maturata da bambino a causa delle innumerevoli camomille che ero obbligato a bere per i frequenti dolori di pancia di natura scolastica. Le porsi la lettera che lei pose sul tavolo senza mostrare alcun interesse per il contenuto.

“Grazie, sei l’unico amico che gli sia rimasto. Lo hanno abbandonato tutti”.

Non capivo chi fossero questi tutti, comunque fui felice di essere l’unico che non lo aveva abbandonato. 

“Persino i suoi non vogliono più saperne di lui. E’ la terza lettera che ci inviano" disse indicando con un’espressione di disgusto la busta giallina, di carta riciclata che giaceva sul piano del tavolo.

“ Non fanno altro che domandare a Pietro di rinunciare alla sua parte nell’azienda di famiglia. Sono gli ultimi pochi soldi che gli rimangono giusto per vivere”. 

Le domandai se c’era qualcosa che potessi fare per loro. Lei mi guardò intensamente e la musica della Madame Buterfly penetrò lieve come una farfalla dalla fessura delle imposte socchiuse. Quando mi congedai con un caloroso quanto improbabile “arrivederci”, avevo in me un sapore agrodolce, un fremito, un tic nervoso alle palpebre, e tuttavia la soddisfazione di essermi  tolto quella spina. Erano le diciotto, dovevo tornare a casa perché stava per arrivare Adelina.

Da quando mia madre mi aveva fatto capire, a modo suo, che sapeva che io e Adelina eravamo molto più che amici, la nostra relazione aveva assunto un ritmo regolare, come accade in tutte le relazioni di lunga durata e dopo il matrimonio. Facevamo l’amore il martedì, il venerdì e la domenica. Quello della domenica era il più bello perché Adelina passava tutto il giorno dai suoi genitori. Io assaporavo un tempo di libertà, tutto per me stesso. Pranzavo in trattoria, se era bel tempo facevo una passeggiata al parco o incontravo Guido con cui si discorreva di tutto, ma principalmente del suo lavoro di scrittore della pagina culturale di questo o quel giornaletto. A fine serata non vedevo l’ora che Adelina ritornasse. Non potevo fare a meno di lei. 

Quando udivo i suoi passi per le scale, immaginavo la sua impazienza di infilarsi sotto le lenzuola.

Gli altri giorni, più raramente si cenava in casa, di solito si andava fuori, in trattoria per un piatto di spaghetti o la pizza. Spesso si univano a noi Michele e Lucia, che fingevano di essere soltanto buoni amici, Luigi il bello, come tutti noi lo chiamavamo e  Guido che in numerosa compagnia faceva scena muta, e a me questo dispiaceva.




 

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